Un progetto a cura degli allievi dei master in editoria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Quella volta che Sepúlveda mi abbracciò

6_CarmignaniIlide Carmignani è una traduttrice di spicco del panorama editoriale italiano nell’ambito della letteratura ispanoamericana, e la collaborazione con le più importanti case editrici le ha permesso di entrare in contatto con autori come Luis Sepúlveda, Almudena Grandes, Arturo Pérez-Reverte. Le prime traduzioni, l’approccio al lavoro e alcuni aneddoti personali della traduttrice toscana sono al centro di questa intervista, realizzata da Martina Moretti, ex allieva del Master in Professione editoria cartacea e digitale dell’Università Cattolica, in occasione del ciclo di eventi Editoria in progress 2014. Ve la riproponiamo in vista dell’apertura dell’annuale serie di conferenze organizzato nell’ambito del Master.

Sarebbe interessante se mi parlasse della sua formazione e di come è diventata traduttrice.
Ho frequentato il liceo classico a Lucca, e ritengo sia stato molto importante perché oltre all’ottima preparazione mi ha fornito un primo approccio alle lingue e alla traduzione, seppur in maniera molto semplice. Lavorando sul latino e sul greco sono riuscita a conoscere meglio l’italiano, più di quanto non sarei riuscita a fare se mi fossi confrontata con lingue moderne come l’inglese.
Poi c’è stata l’esperienza universitaria: Lettere a Pisa, dove ho studiato spagnolo e tedesco. È stato un percorso rapido e mirato. La prima traduzione mi fu affidata subito dopo la laurea, da un professore che voleva pubblicare un volumetto per un concorso universitario. Le traduzioni non facevano titolo, e tuttora ne fanno poco o nulla, così l’affidò a me, insieme alle note, che al contrario facevano punteggio. Francamente mi sembrò il mondo alla rovescia: scrivere le note ai miei occhi era un lavoro molto meno complesso di tradurre. Accettai il lavoro, attratta dall’idea di lavorare su Ocnos, una magnifica raccolta di poemi in prosa di Luis Cernuda, un autore spagnolo della generazione del ’27. Fu un’estate molto bella, la passai in giardino a tradurre quei ricordi giovanili di Siviglia. Fu anche grazie a quest’esperienza che capii che volevo fare della traduzione il mio mestiere.
Poi vinsi una borsa di studio per gli Stati Uniti e frequentai il primo anno di PhD alla Brown University, famosa per gli studi ispanici. Là chiesi ad Alan Trueblood, un illustre studioso ma anche un grandissimo traduttore spagnolo-inglese, un special course sulla traduzione, e lui accettò di seguirmi. Fu un’esperienza fondamentale. Al mio rientro in Italia, Trueblood mi scrisse una lettera di presentazione per Fernanda Pivano, ma quando lei mi ricevette, a casa sua a Milano, ricevetti una grande delusione, perché mi disse: “È un lavoro molto solitario, economicamente mal pagato, una persona giovane come lei perché non prova a lavorare sui libri in altro modo?”. Fu comunque un incontro proficuo, perché la Pivano mi spiegò come muovere i primi passi nel mondo editoriale italiano. Un altro incontro ancora più importante fu quello con Dennis Linder, della mitica Agenzia Letteraria Internazionale: gli dissi che volevo tradurre due scrittori, senza nemmeno essermi chiesta se erano rappresentati da lui, e naturalmente non lo erano. Forse commosso dalla mia ingenuità, Linder volle vedere le mie traduzioni, le lesse e poi suggerì il mio nome ad alcune case editrici. Feci qualche prova e in breve Michele Riva mi affidò una traduzione per la Serra e Riva: era l’autobiografia di una principessa tibetana. Dopo qualche anno di lavoro intenso ma solitario – Luis Sepúlveda, Almudena Grandes, Arturo Pérez-Reverte, di nuovo Cernuda – decisi che avevo assolutamente bisogno di riflettere sul mio mestiere, così frequentai il corso di perfezionamento in traduzione letteraria dell’Università di Siena con il prof. Melis.
Un’altra esperienza molto formativa, più recente, è stata quella al Centro britannico di traduzione letteraria: per sette anni, ogni estate, sono andata all’Università della East Anglia per una Summer School di traduzione con scrittori e colleghi di tutte le parti del mondo. Ero workshop leader spagnolo-italiano. È stato interessantissimo: lo scambio di informazioni e tecniche tra traduttori più o meno esperti è fondamentale, la presenza dello scrittore permette di capire meglio il testo e il lavoro che sta dietro alla scrittura. È affascinante vedere come tutte le lingue dicono certe cose e ne tacciono altre. La lettura finale del testo nelle varie lingue, anche quelle più rare, è davvero meravigliosa: a volte non si capivano le parole, ma riuscivi comunque a riconoscere il ritmo e l’intonazione. Un vero peccato che i finanziamenti della CE siano stati tagliati e i gruppi non legati all’inglese cancellati dal programma della Summer School.

Il 17 aprile 2014 è scomparso García Márquez. Ha avuto la possibilità di conoscerlo personalmente?
No, non c’è mai stata occasione. Quando l’ho tradotto era già molto malato. Ci sarebbero stati alcuni dubbi che normalmente avrei avuto piacere di indagare, ma con il curatore, Bruno Arpaia, e con la direttrice dei Meridiani Mondadori, Renata Colorni, fu deciso di non disturbarlo. Avevamo comunque accesso a molti esperti, scrittori vicini a lui, traduzioni in tantissime lingue, la critica e l’analisi testuale. Quando si lavora su un autore come García Márquez non si è soli, si hanno comunque un’infinità di strumenti per aiutarsi nell’interpretazione del testo.

Come è stato il primo incontro che ha avuto con Sepulveda?
Mi chiamò la casa editrice, invitandomi a Milano perché Sepúlveda voleva conoscermi. Non era mai successo, quindi mi preoccupai: forse voleva essere sicuro che fossi all’altezza del compito… Insomma, pensai a una specie di esame e fui presa dall’ansia. Magari quando incontri un scrittore non gli piace il tuo spagnolo; magari ti chiede se hai letto un certo libro e non l’hai letto; magari ti chiede se ti piace un autore, tu dici di sì, e lui lo odia. Fu un viaggio tormentato e quando arrivai a Milano ero nervosissima. Entrai all’Hotel Manin, dove Guanda ospitava Sepulveda, sperando di incontrare un volto conosciuto della casa editrice, un appoggio. Invece, il deserto. Poi sento un rumorino: l’ascensore si stava aprendo. Le porte si spalancano e riconosco Sepulveda, che avevo visto in una piccola foto su Linea d’ombra. Lui incrocia il mio sguardo, vede che lo sto fissando e mi osserva di rimando come a chiedere “chi sei?”. Non potendo fare altro mi avvicino, mi presento, rigida rigida gli tendo la mano, e lui, che è un omone, mi abbraccia sollevandomi quasi da terra. Sepulveda è famoso per i suoi abbracci da orso. Poi mi ha spiegato che voleva ringraziarmi di persona per essere diventata la sua voce italiana. Ormai sono più di 20 anni che ci conosciamo, ho incontrato anche la sua famiglia, c’è stata la possibilità di allacciare un rapporto meno formale.

Si dice che il mestiere del traduttore richieda una dose di maniacalità. Quanto si ritrova in questa descrizione?
È un lavoro per ossessivi. Quello che è normalmente un difetto, nella traduzione diventa un pregio, perché è necessaria una cura e un’attenzione estrema. Quanto più un testo è ricco e ben scritto, tanto più c’è bisogno di una lettura ossessiva per cogliere, interpretare e capire tutto appieno. Nella resa ti accanisci e continui a cercare soluzioni sempre migliori. Se non me le strappassero di sotto, non riuscire mai a consegnare una traduzione. Come dice Borges: “El concepto de texto definitivo, no corresponde sino a la religión o al cansancio”.

Come ultima domanda vorrei avere la sua opinione sulla figura del revisore. Lei ha mai svolto questo tipo di controllo sulle traduzioni di altri?
Sì, anche se pochissimo perché preferisco tradurre. L’ho fatto per due Meridiani Mondadori, Márquez e Machado, e una volta per Minimum Fax. Credo che un buon revisore sia il primo lusso che venga concesso al traduttore, perché un buon revisore ti sorregge là dove rischi di scivolare. Per quanto mi riguarda, è uno degli elementi che mi fanno accettare o meno un lavoro. C’è bisogno di qualcuno che rilegga il testo con un orecchio fresco, che lo affronti con un certo distacco. Se il revisore è bravo, provo eterna gratitudine. Un esempio è Francesca Erba di Adelphi: quando passa lei su una mia traduzione, mi sento tranquilla. A volte mi fido più di Francesca che di me stessa. Del resto un revisore di lungo corso trascorre da anni le sue giornate a rivedere traduzioni e acquista un orecchio finissimo.
In altri casi no. Mi è successo, per fortuna raramente, di trovare revisori che lavorano con poca cura e poca serietà. Intervengono là dove non serve, dove è solo un fatto di gusto personale, mentre non riescono a intervenire sui nodi della traduzione. Naturalmente esistono anche traduttori un po’ troppo disinvolti, e allora sono guai per i revisori, perché come dicono Fruttero e Lucentini, correggere una cattiva traduzione è facile quanto, per un ciabattino, trasformare una scarpa sinistra in una destra. Bisognerebbe investire di più sia nella traduzione che nella revisione, ma di questi tempi temo che non sia il primo pensiero degli editori…

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