Un progetto a cura degli allievi dei master in editoria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Organizzare il sapere: Editori e Wikipedia, un faccia a faccia

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L’editore è chiamato a fare la sua mossa, a dimostrare che in questo nuovo ecosistema è capace di adattarsi, proporre contenuti e servizi aggiungendo valore, e io credo che abbia tutte le carte in regola per poterlo fare.

 

Andrea Angiolini, presidente del gruppo accademico professionale dell’Associazione Italiana Editori e direttore editoriale de Il Mulino, risponde alle nostre domande in occasione dell’incontro “Il sapere al tempo di Wikipedia”, svoltosi in Università Cattolica l’8 marzo 2016 nell’ambito del ciclo Editoria in progress 2016. Nelle sue parole tutto l’orgoglio di un ruolo ancora fondamentale per l’editore, il racconto dell’esperienza innovativa di Pandoracampus e la consapevolezza che sia necessario confrontarsi con la complessità per il bene comune, la condivisione del sapere. Con la speranza che l’attenzione per la didattica torni a essere centrale per tutti: studenti, autori, case editrici, università e istituzioni…

Quali sono secondo lei, in veste di presidente della sezione accademica dell’AIE, le tendenze generali e le sfide che oggi l’editoria universitaria si trova ad affrontare?

Possiamo individuare due macro tendenze. La prima è l’iperspecializzazione delle diverse discipline, traducibile in una compartimentalizzazione fortissima: le discipline sono sempre più autoreferenziali, gli autori cercano sempre più strumenti per la valorizzazione delle carriere, e questo non coincide necessariamente con gli interessi di ricerca, studio e lettura degli universitari. Perciò la ricerca è sempre più specialistica e frammentata, oltre che autoreferenziale. La didattica, invece, non riesce a entrare nel gioco, cioè la produzione di un buon manuale, di un sapere sistematicamente organizzato e progressivo su un aspetto di una disciplina, non ha alcun incentivo di carriera per i docenti. Ci troviamo quindi ad avere una sovrapproduzione iperspecialistica per la ricerca e una grandissima difficoltà a scrivere a una buona stesura e produrre buoni manuali universitari. Questo è il problema principale che stanno fronteggiando gli editori universitari. Questa scarsa valorizzazione dell’attività didattica si traduce in una scarsa propensione alla pubblicazione di testi didattici, salvo poi attestare strumenti insufficienti: nessuno dovrebbe iscriversi all’università per sapere quello che sa il proprio professore a lezione, spesso legittimamente solo un pezzo della disciplina, poiché il sapere universitario è molto più ampio e passa attraverso la produzione editoriale, la complessità e la varietà delle opinioni che anche la produzione editoriale esprime. L’impoverimento della produzione didattica è impoverimento culturale.

L’inadeguatezza di molte strutture e la mancanza di tempo per il corpo docente di imparare ad usare i supporti del digitale sono due realtà ineluttabili oggi. Questo si traduce in disuguaglianze sempre più evidenti tra differenti istituti e tra nord e sud Italia. Secondo lei l’editoria universitaria può fare qualcosa per migliorare la situazione oppure è puramente questione di mancanza di fondi?

C’è stata l’illusione che il digitale potesse sostituire un buon insegnamento. Il supporto digitale è uno strumento più o meno sofisticato messo nelle mani di qualcuno. La formazione di questo qualcuno, studente o professore, è un argomento aperto e attualissimo. Dovrebbero concorrere a una buona formazione del docente anche agenzie interne all’università. Invece la didattica all’università, anche prima del digitale, non è mai stata al centro dei pensieri dei più. Il digitale ha aggravato questa situazione poiché si pensava avrebbe potuto configurarsi come elemento sostitutivo di una buona didattica, invece era, appunto, solo uno strumento. È l’università che deve formare i propri professori a monte, e stabilire incentivi di carriera a una buona didattica, preoccupandosi anche dell’alfabetizzazione digitale. Studenti e professori potrebbero trovare nelle biblioteche, dei nuovi luoghi di formazione a un uso consapevole, capace e efficace del digitale. Il compito degli editori si svolge prima ed è quello di formulare contenuti digitali, strumenti, pubblicazioni, piattaforme adeguate ai vari livelli d’apprendimento e alfabetizzazione digitale, e di accompagnare la diffusione di questi strumenti con una propria attività di formazione.

Ci parla del progetto Pandoracampus? Degli obiettivi di partenza, del feedback ricevuto e delle idee sul futuro?

logo3Pandoracampus arriva dopo un’altra serie di realizzazioni che Il Mulino ha fatto in digitale. L’idea che ci ha guidato fin dagli inizi degli anni 2000 è stata quella di aggiungere un valore nel momento in cui le nostre pubblicazioni andavano in un ambiente digitale. Non ci interessa la mera trasposizione in digitale, poiché pensiamo che la carta sia efficacissima: per spostarsi sul digitale occorre un motivo. Pandoracampus è dunque una piattaforma multieditore e multilingua dove i contenuti sono proposti in un contesto a valore aggiunto e in modalità nuove: contenuti a granularità fine, che danno ai docenti la possibilità di comporre testi unendo capitoli o pezzi di capitoli di libri differenti, e una modalità ad accesso e non a possesso. Questo consente una possibilità di risparmio per gli studenti. Il testo è fluido, non in pdf ma in HTML5 (dietro c’è XML), ricco nella sua struttura, sulla quale vengono costruiti dei servizi di approfondimento e autoverifica, di studio, di organizzazione del tempo. Per esempio, imposto la data dell’esame, il libro viene scomposto per obiettivi intermedi, la piattaforma vede il mio ritmo di studio e adatta il calendario. Più in generale l’idea è quella della massima inclusività: anche libri di altri editori, anche in lingua. I riscontri sono positivi, decisamente in crescita anche se con numeri assoluti ancora contenuti; e registriamo interesse crescente da parte di sistemi universitari che in contesti specifici intendono sperimentare queste modalità. Ad esempio qualche tempo fa abbiamo fatto un accordo con Federica, che è la piattaforma di elearning della Federico II di Napoli e abbiamo integrato Pandoracampus, che infatti nasce per essere aperta, interoperabile con i sistemi bibliotecari, di e-learning con altri sistemi. Noi siamo un pezzo dell’ecosistema. Ci apriremo a una prospettiva sulla quale continueremo a insistere e che si orienterà verso contenuti differenti, perché Pandoracampus è una piattaforma che guarda alla formazione superiore a 360 gradi quindi anche al post-laurea, all’accesso alla professione. In quest’ottica, che resterà centrale, aggiungeremo videolezioni, corsi, simulazioni…

…insomma sfruttare al massimo il digitale significa puntare sulla multimedialità…

La multimedialità non sarà l’unico cambiamento. L’altro aspetto sarà l’adattabilità: una piattaforma che si adatta al livello e al ritmo di studio dello studente, a parità di testo; questo significa proporre una cosa diversa dal manuale universitario è uguale per tutti, non solo nel contenuto, ma anche nella forma e nella struttura, perché noi vorremmo che ci fosse qualcosa di specifico per ciascuno a parità di curriculum, e per questo guardiamo a una piattaforma capace di proporre percorsi specifici.

wikipedia-logo_1Il tema del primo appuntamento di Editoria in progress è il sapere frammentato e multimediale al tempo di Wikipedia. Sembra che la prospettiva sia comune a quella di Pandoracampus: proporre ad hoc un contenuto culturale specialistico con approfondimenti e la possibilità di comporre il proprio book con capitoli isolati. È davvero il marchio dell’editore a dare quel valore aggiunto, a fare la differenza tra l’enciclopedia amatoriale di Wikipedia e il sapere organizzato con cura e dedizione editoriale?

L’editore è chiamato a fare la sua mossa, a dimostrare che in questo nuovo ecosistema è capace di adattarsi e di proporre contenuti e servizi aggiungendo valore e io credo che abbia tutte le carte in regola per poterlo fare. Il problema del sapere al tempo di Wikipedia è quello di un sapere diffuso e abbondante, dove la diffusione e l’abbondanza si sono accompagnate alla bidirezionalità: l’autore è anche fruitore, il fruitore è anche autore. Questo produce una tendenza straordinaria e costituisce un valore. Ma non è detto che portato nel campo di un sapere specialistico, funzioni allo stesso modo: il sapere della folla funziona egregiamente bene rispetto al sapere diffuso. È facile che le date di nascita e morte di Manzoni, su Wikipedia, siano corrette; invece, sulla teoria delle stringhe è molto più importante ascoltare il parere di un bravo fisico. Più il sapere diventa specialistico più abbiamo bisogno di esperti, i dilettanti ci aiutano meno. In questo contesto l’editore è un intermediario il cui senso è quello di aggiungere valore lungo la catena del prodotto culturale. Se eliminiamo l’editore non abbiamo eliminato il mediatore, semplicemente abbiamo trovato dei mediatori nuovi, magari occulti, se volete anche efficaci ed efficienti: Google è un mediatore, gli algoritmi di Facebook e Twitter sono dei mediatori, che però spesso si ammantano di una patina di oggettività. Per cui l’alternativa non è la disintermediazione totale o il rimanere a un’intermediazione di vecchio conio ma adattarsi al nuovo contesto. Io penso che per un sapere specialistico, accademico, universitario e di formazione, il ruolo della mediazione editoriale sia fondamentale, ovviamente adattata in quanto a grammatica e strumenti di base. Avrà quantomeno il pregio di essere trasparente e più esplicita di quella degli altri.

Infatti questo va a confermare il dato dell’inchiesta CENSIS (Un’inchiesta sul sapere, 11 febbraio 2015) secondo il quale molti italiani si informano prima sul Web, ma poi circa il 90% ritiene le informazioni così ottenute non attendibili e sente il bisogno di approfondire sul libro di testo, ove la credibilità della carta supera il 90%.

Anche su questo credo che ci voglia una grammatica nuova che vada oltre alla contrapposizione digitale/carta: ci può essere dell’ottimo digitale e della pessima carta, e viceversa. Il punto è che siamo abituati a fidarci dell’una e non dell’altro. Il mio auspicio è che ci si possa fidare del digitale tanto quanto ci si fida della carta imparando a fare una critica delle fonti. Sulla carta siamo abituati ad avere alcuni parametri che ci portano a fare delle buone letture. Le stesse buone letture si possono fare anche in digitale, su siti editoriali a pagamento o no. Va benissimo se la gente si fida della carta, va meno bene se non si fida del digitale solo perché non ha gli strumenti per distinguere. Quindi inviterei ad una lettura più articolata: ed ecco che torna fuori prepotente il tema dell’alfabetizzazione, dell’avere le categorie per poter fare le differenze.

Torniamo su Pandoracampus. La scelta della partnership con il sistema per i dispositivi portatili iOs e non Android, deriva da una differenza di servizi (grafica, funzionalità) offerti da questi dispositivi o da una scelta di marketing?

Quando abbiamo esordito con Pandoracampus non esistevano ancora tablet che avessero Android come sistema operativo, quindi abbiamo cominciato con gli unici che potevano offrire qualcosa di solido e diffuso. Ovviamente c’è l’intenzione di andare oltre compatibilmente con le risorse. Forse la riflessione più generale va fatta sul dispositivo in sé: oggi forse lo smartphone è più utilizzato rispetto al tablet. Quando abbiamo cominciato gli smartphone erano più piccoli e con sistemi operativi meno evoluti, mentre il tablet era l’unico a consentire un accesso offline ai contenuti. Questo è stato per noi l’iPad. Oggi ci sono i tablet Android, ma c’è anche un uso molto più vasto e intelligente del mezzo smartphone. Perciò il problema da porsi è la doppia espansione: verso gli smartphone e verso i tablet non iOs.

Intervista a cura di Ilaria Ruggiero e Luca Calvetto

 

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