Un progetto a cura degli allievi dei master in editoria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

“Mi sono divertito tantissimo, tutti i santi giorni”: la vita nell’editoria secondo Matteo Codignola

Martina Raule

Professione Editoria

Sono le 19.00 in punto. Matteo Codignola risponde al telefono con un po’ di affanno: «Ti richiamo tra cinque minuti! Sai, mi scrivo gli appuntamenti nell’agenda, ma poi non la consulto». E riattacca. Ma è un uomo di parola, e poco dopo squilla il telefono. Autore, traduttore, editor, art director di Adelphi e presto direttore di un nuovo marchio editoriale, Orville Press, che debutterà nel 2023, è pronto a raccontare qualche retroscena del mondo editoriale.

Nel tuo libro Cose da fare a Francoforte quando sei morto racconti le tue esperienze alla Buchmesse di Francoforte. Dagli anni Novanta sono cambiate, le fiere letterarie?

Da fuori, non molto. È sempre la solita kermesse, ambientata in uno spazio fieristico diviso in padiglioni e stand, dove si tenta di vendere libri a colleghi, o di farseli vendere. Le foto degli anni Novanta sono uguali a quelle di oggi, e anche gli outfit – la prevalenza del nero persiste. Ma quello che si fa è invece abbastanza cambiato. Fino agli anni Novanta, appunto, capitava spesso di vedersi proporre un libro da leggere in fiera, magari quella notte stessa, per tentare la mattina dopo di arrivare a un’offerta – che comunque qualcun altro aveva quasi sempre già fatto prima dell’alba. Oggi non succede praticamente più.

Dopotutto ci sono tanti nuovi mestieri e anche le tecnologie sono cambiate.
Negli ultimi dieci, vent’anni la comunicazione è diventata più veloce. A Francoforte aste non se ne fanno quasi più. Non è più quello il punto centrale. Ma tutto sommato, non importa. Anche se non compri niente, chiacchierando con gli agenti, con gli editor, con gli scout, ascoltando decine, se non centinaia di presentazioni, in quattro giorni ti fai un’idea abbastanza precisa di quello che succederà nei successivi diciotto mesi. Anche in editoria esistono trend, e persino megatrend – che un anno sono i funghi, l’anno dopo qualche particolare tipo di intrattenimento carnale. Non è detto che tu debba tenerne conto, ma percepirli prima che si manifestino è importante.

Passiamo alla traduzione. Vedo che sempre più editori decidono di mettere nelle quarte o in copertina il nome del traduttore. Pensi che stia aumentando il valore e la comprensione del lavoro del traduttore? Spesso è un lavoro che viene sconsigliato…

Fanno abbastanza bene, a sconsigliarlo. È un lavoro molto faticoso, e se è il primo, per sopravvivere bisogna produrre a ritmi inverosimili, con conseguenze che è facile immaginare sulla qualità della vita del disgraziato o della disgraziata.E anche sulla qualità del lavoro. Viste le tariffe attuali, la traduzione dovrebbe essere una specie di hobby, qualcosa che uno fa quando ha un po’ di tempo da dedicare a un’attività che ama, o che lo diverte. Uno dovrebbe tradurre solo i libri che gli piacciono, quando e se gli va. Per essere più precisi, dovrebbe tradurre solo i libri che avrebbe potuto, o voluto, scrivere lui. Ma naturalmente le cose vanno in tutt’altro modo. E, purtroppo, si vede.

C’è qualcosa che ti piace del tradurre?
Ma no, a me piace tradurre, perché mi piace scrivere. Fisicamente, intendo. Così, quando ho qualcosa da dire, e che penso possa non seccare troppo il mio prossimo, scrivo. Altrimenti traduco. È una specie di allenamento. Molto utile, però. Meglio ti alleni, meglio giochi in torneo.

La non fiction, che è un genere molto nelle tue corde, sta iniziando a guadagnare lettori. Perché le storie delle persone, anche normalissime, diventano sempre più spesso libri?

Non metterei insieme non fiction e autofiction. Sono due cose diverse, ed è la seconda a partire dall’idea che la vita di chiunque sia essenzialmente una materia narrativa. Non è vero, o almeno, non sempre. Qualsiasi vita può essere raccontata, come no. Solo che non sempre ne vale la pena. E comunque, ormai si può fare molto più rapidamente, e con molto meno fatica, che scrivendo un libro. Ad esempio, aprendo un profilo social. Le storie non di finzione sono un discorso diverso. Si scrivono da sempre, anche se negli ultimi decenni hanno cambiato nome. E non c’è dubbio che, negli ultimi anni, chi vuole trovare le storie, i personaggi, o le idee che un tempo circolavano in romanzi e racconti, è meglio che concentri la ricerca in questi libri ibridi, indocili, spesso senza uno scaffale d’arrivo. Lì la sorpresa è spesso garantita.

C’è qualcosa che non può assolutamente mancare nella non fiction?
Un certo tipo di tensione, credo. L’idea, la sensazione di stare esplorando un territorio senza mappa, di cui fino a quel momento quasi nulla sapevi. Un tempo era qualcosa che ti aspettavi anche dalla narrativa (soprattutto, dalla narrativa). Ma oggi, per ragioni non del tutto chiare, dalla narrativa sembra ci si aspetti il contrario, una specie di eterna ripetizione di quello che già si sa, o in cui è più semplice riconoscersi.

Quale pase al momento ha la miglior scena letteraria?

Oddio, non lo so. Le culture e le lingue locali sono diventate una strana cosa. Se ne parla continuamente, le si rivendica con orgoglio, perfino con ferocia – ma in genere lo si fa in inglese. Non mi pare ci sia un’area del mondo che sta emergendo, o vivendo una stagione particolare. Vero, si pubblicano moltissimi libri di autori che provengono, o le cui famiglie provengono, da paesi ex coloniali. Ma, appunto, escono quasi sempre in Inghilterra o negli Stati Uniti, e sono scritti in inglese, il che rende il discorso molto complicato. Oppure, può accadere che un paese scopra tradizioni di cui non sapeva molto. Per fare un esempio sotto gli occhi di tutti, l’Italia era piuttosto digiuna di letterature nordiche, prima che una casa editrice come Iperborea decidesse di farle conoscere a fondo. Ma non è che in Scandinavia si siano improvvisamente messi tutti a scrivere. Lo facevano anche prima, solo che quasi nessuno se ne occupava.

Sì, ora è difficile pensare a una scena forte e innovativa come era accaduto con la letteratura sudamericana.
Ecco, quello è un caso diverso. Forse l’ultimo, di quel tipo. Cent’anni di solitudine fu un clamoroso caso editoriale. Da una parte suscitò innumerevoli tentativi d’imitazione, ma dall’altra era solo la parte emersa di un continente letterario molto più vasto, che proprio in quegli anni lottava per emergere. E quando lo scoprirono, moltissimi lettori occidentali ne furono letteralmente soggiogati. Per varie ragioni, anche politiche. Ma era un mondo veramente diverso. Oggi fatico a immaginare un’ubriacatura collettiva di quel tipo. Anche se non avrei niente contro, anzi.

Cosa diresti a chi vuole lavorare in questo campo?

Di farlo, a meno che non pretenda di comprarsi una Tesla entro i trent’anni. Io non me la sono comprata, e a questo punto non credo che me la comprerò, anche perché non mi piace. Ma mi sono divertito moltissimo, tutti i santi giorni.

 

Questa intervista è stata realizzata nell’ambito del corso di Testi e video per l’informazione giornalistica di Carlo Fumagalli. Vedi l’elenco completo degli insegnamenti del Master Professione Editoria.

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