Un progetto a cura degli allievi dei master in editoria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

La perfezione? Anche no. Individuiamo i nostri talenti e voliamo alto. Intervista a Silvia Pettinicchio Krebs

Pia Brugnatelli

Professione Editoria

L’incontro con Silvia Pettinicchio Krebs è a margine di un evento di Book Pride organizzato dai Master in Editoria dell’Università Cattolica. È stata invitata per parlare di networking e storytelling, e non è un caso. Esperta di personal branding e LinkedIn, consulente aziendale di comunicazione e social media, insegnante di marketing all’università, ha un modo per entrare in relazione con studenti, imprenditori, clienti: attraverso le storie. La sua formazione è avvenuta quasi completamente all’estero, ma per lavorare è tornata in Italia: quasi un caso al rovescio di “cervello in fuga”.

A proposito, cosa l’ha spinta a questo percorso?

Studiavo giurisprudenza all’università per diventare magistrato, quando il terremoto politico-giudiziario di Mani pulite e poi gli omicidi di Falcone e Borsellino mi hanno fatto disinnamorare totalmente dell’Italia. Così ho colto un’occasione abbastanza frivola: avevo un boyfriend americano, mi ha detto “Vieni con me”. Non ci ho pensato due volte.

E cosa l’ha riportata qui?

Anche qui il percorso è stato casuale. Per una ventenne Miami è un ambiente decisamente intrigante, avevo anche cominciato a lavorare per mantenermi agli studi: insomma, quando sono rientrata in Italia per motivi familiari la mia idea non era di restare. Ma poi ho cominciato a lavorare…

E ci ha preso gusto?

All’inizio è stato un clash culturale molto forte. Un muro di burocrazia, lentezza, piccineria, individualismo, cose che avevo dimenticato quando vivevo negli Stati Uniti. Ma proprio l’esperienza che mi sono fatta all’estero mi ha aiutata ad ambientarmi subito e mi ha permesso di fare carriera qua.

Burocrazia, lentezza, ma anche – cito un suo post su LinkedIn – una paralizzante paura di sbagliare.

Quella dell’errore per me è una tematica fondamentale, l’ho sperimentata sulla mia pelle negli Stati Uniti e poi in Italia, nel confronto tra i miei studenti europei e anglosassoni. Da noi errore significa fallimento, colpa, vergogna: una considerazione molto legata al valore di sé. Tendiamo a rischiare poco, perché abbiamo paura di essere considerati dei falliti. In questo modo gli errori, che sono esperienze da cui si potrebbe imparare, s’infettano, diventano cancri pericolosi. E questo a livello più macro è un tappo anche per l’economia, il lavoro, l’imprenditorialità.

E all’estero?

In altri Paesi chi prova e sbaglia è considerato uno figo, un imprenditore di sé, uno che non si arrende: provi, sbagli ma ti rialzi subito, e ogni volta che lo fai non perdi punti davanti alla tua rete di conoscenze, anzi, ne acquisti.

Cosa suggerisce per superare il problema?

Io credo che si debba lavorare a livello personale e familiare, prenderne coscienza come genitori e iniziare a passare un messaggio diverso a bambini e ragazzi. È un atteggiamento che può determinare una svolta non solo nella vita di una persona, ma anche di un Paese.

Pensa che il personal branding dovrebbe entrare a far parte della formazione dei cittadini del futuro?

Assolutamente sì. Personal branding significa semplicemente fare di sé un brand, cioè imparare a individuare i propri talenti, le proprie competenze e passioni e saperli comunicare al meglio: e questo è importante anche e soprattutto se non ci si occupa di comunicazione.

In particolare per le donne.

Uno dei problemi che penalizzano le donne sul lavoro è la mancanza di fiducia in sé stesse. Cresciamo con il mito della perfezione, e così siamo destinate a sentirci sempre inadeguate, perché la perfezione non esiste. Quand’è che invece cominciamo a essere un pochino più sicure? Quando, al posto di mirare alla perfezione, iniziamo a guardare alle nostre qualità. Personal branding è appunto concentrarsi su quello che sappiamo fare, ci viene bene e ci piace. Da lì costruiamo una narrazione.

È qui che entra in gioco lo storytelling?

Lo storytelling è un modo per raccontarsi agli altri, ma può anche essere utilizzato per l’individuazione delle proprie competenze e del proprio talento. Prendere consapevolezza è il passo più difficile. Poi però bisogna anche andare a raccontarsi agli altri. E qui per le donne si attiva un altro meccanismo sabotatore, quello dell’umiltà e della modestia, che dice: “No! Non te la devi tirare, non volare troppo alto, vola basso!” Ma perché, dico io? Ci pensa già il mondo a tirarci giù. Voliamo alto, almeno noi.

Il 9 marzo scorso è intervenuta all’evento Il lavoro molesto organizzato dal Municipio 3 di Milano, per raccontare una storia di violenza che sta alla base del suo impegno per la parità di genere.

Le statistiche sulle molestie sessuali, lo sappiamo, sono pazzesche: al mondo le subisce una donna su tre, in un caso su cinque si tratta di violenza. Senza parlare di mobbing, stalking, esibizionismo eccetera. Per questo ho deciso di raccontare la mia storia, perché è successa a me come a tantissime altre donne, eppure spesso parlarne sembra ancora un tabù. A venticinque anni, quando vivevo ancora negli Stati Uniti, ho subito un episodio di violenza sessuale. Per me è stato ovviamente un evento traumatico, ma la coda che mi sono portata dietro è legata soprattutto alla narrazione che l’ha circondato.

Che tipo di narrazione?

Quando l’ho confessato ai miei amici e familiari, non ho trovato un vero supporto, se non a parole. Alcuni mi hanno detto: “Questa cosa a tuo padre non la devi dire se no lo ammazzi”, o addirittura: “Ma com’eri vestita quando è successo?”, come se questo giustificasse in qualche modo l’aggressione. Per tanto tempo mi sono portata dietro questa scia amara, acida, la paura di essermela cercata. Con la maturità mi sono resa conto che non è assolutamente così, che il fatto di essere donna, di avere un corpo e degli organi sessuali, non giustifica assolutamente il passaggio alla violenza. Così mi sono detta “Voglio lavorare a questa cosa, fare in modo che le vittime non debbano mai sentirsi responsabili”.

Impegno che si è riflesso anche nelle sue scelte lavorative.

Ho aperto da poco un progetto, un gruppo di formatrici che si chiama LeadHer, che è nato con l’idea di lavorare sulla consapevolezza e l’autostima delle donne, attraverso un percorso di formazione e coaching. Poi ci siamo rese conto, anche per spinta mia, che sono per natura un’attivista, che c’è molto bisogno di fare sensibilizzazione e informazione su questi temi, creare cambiamenti culturali, e quindi adesso stiamo lavorando con il comune di Milano a progetti importanti per la parità di genere.

Nella descrizione dell’agenzia The Garage da lei fondata si afferma che “ciò che ci muove è la possibilità di realizzare le nostre idee e attraverso di esse creare un futuro migliore.” 

Questa è sicuramente la mia visione del mondo. Io credo che qualsiasi cosa noi facciamo abbia un impatto sul mondo e sulle persone, e quindi non possiamo permetterci di fare scelte prettamente utilitaristiche ed eticamente sbagliate. Mi trovo in una fase della mia vita in cui ho la fortuna di poter scegliere i clienti con cui lavoro e le cause da sposare, e hanno tutte una forte componente di corporate social responsibility. Inoltre, proprio perché abbiamo la responsabilità di creare un mondo migliore, ma anche di aiutare chi già lo sta facendo, con Garage seguiamo una causa pro bono all’anno, negli ambiti della parità di genere e dell’ecologia. I miei due colori nel 2019, e credo per un bel po’ di tempo, saranno pink e green.

Parliamo di editoria. Lei consiglierebbe il personal branding autoriale, che raccomanda vivamente ai self-publisher, anche in caso della presenza di un editore?

In Italia, si dice, si scrive molto più di quanto si legga. Anche per questo c’è un sottobosco di autori che fanno fatica a emergere, non perché la qualità delle loro pubblicazioni sia scadente, ma perché non hanno una vetrina. Il settore dell’editoria da questo punto di vista si muove ancora su canali di comunicazione tradizionali. I book reading sono importanti, certo, e c’è anche qualche caso di pubblicità digitale, ma sembra che non si sia capito che in fondo quello che i lettori “sposano” è l’autore. Quando trovo un autore che mi piace leggo tutto quello che ha pubblicato, finché a un certo punto mi immagino quasi di conoscerlo. Per questo la scelta di comunicare il personaggio non soltanto attraverso i libri diventa molto importante. Posso raccontarti una storia?

Volentieri.

Riguarda mia sorella, un’appassionata lettrice di Sergio Bambarén. Il suo sogno, come per tanti lettori, era quello di riuscire a parlarci. Un tempo, senza i canali digitali, si poteva solo scrivere una lettera all’editore, che l’avrebbe forse passata all’agente, e lì probabilmente si sarebbe fermata. Mia sorella, invece, un giorno intercettò un post della pagina Facebook seguita personalmente da Bambarén. Parlava di una passeggiata in un bosco svizzero, a poche decine di chilometri in linea d’aria da dove viveva lei. Commentò il post, e iniziò così a interagire con un autore da milioni di copie in tutto mondo. Si scrissero privatamente, lo invitò a fare un reading a Lecco, divennero effettivamente grandi amici. L’ultimo libro di Bambarén è dedicato a lei. Una storia pazzesca per qualunque lettore. Ma la morale vera è che chi sa usare i social e interagisce con i propri lettori non ha soltanto una visibilità digital maggiore: crea anche relazioni che possono uscire dai social. E diventare reali.

Silvia Pettinicchio Krebs è intervenuta il 15 marzo 2019 a “Fare Network. Tra social reading, bookinfluencer e chimica organica”, primo evento di Editoria in progress 2019.
Vedi la gallery dell’evento e le interviste agli altri ospiti nella sezione Testimonianze.

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