Da dove nasce l’istinto di narrare? Come si costruisce una narrazione davvero efficace? Davide Pinardi ci racconta i mezzi dello storytelling, le soluzioni che fanno sopravvivere una storia nel tempo. E ci svela il segreto dell’onestà: costruire una storia è come fare un patto, un accordo dove la fiducia nell’altro è fondamentale.
Professore di Scrittura Narrativa all’Accademia di Brera e di Storytelling e Tecniche di Narrazione al Politecnico di Milano, Davide Pinardi è autore di romanzi, di libri per ragazzi, di sceneggiature per la televisione e per il teatro, di saggi che spaziano dalla narratologia alla politica. È stato ospite dell’evento Editoria in progress 2016 del 19 aprile per raccontarci, grazie alla sua esperienza, come si creano le narrazioni d’azienda.
Il suo curriculum come autore vanta pubblicazioni di moltissimi generi, dalla storia per l’infanzia al romanzo, dal saggio alla sceneggiatura per televisione. Il concetto di storytelling per l’impresa nasce come sintesi di queste attività o è un’idea parallela alla sua produzione?
Ci sono arrivato per passaggi laterali. Inizialmente insegnavo italiano, poi mi sono messo a scrivere, ho fatto un po’ il giornalista e rapidamente mi sono accorto che la professione non ha stretti confini. Dapprima sono passato all’insegnamento delle tecniche narrative, quasi vent’anni fa, poi mi sono accorto che queste tecniche potevano applicarsi sempre più ad altri ambiti. Mentre la comunicazione è una trasmissione unica di un messaggio, la narrazione è un rapporto bilaterale, non meramente informativo, una vera e propria relazione. Questo riguarda molti ambiti.
Sempre più ho visto che emergeva la tematica dello storytelling e del comunicare le cose in modo diverso. Si era esaurito il senso della comunicazione come lo si intendeva negli anni ’90, ma la maggior parte delle aziende ha preso questo fenomeno in modo superficiale. Inoltre ho notato che la narrazione viene usata sempre più spesso nella politica, oltre che nella comunicazione d’impresa, e nel giornalismo, che sempre più si confronta con nuove e diverse forme di rappresentazione. Dato che le altre forme sono più impattanti ma meno orientanti, si va sempre più verso una riflessione sulla creazione di storie di senso e trasmissione di strutture di senso. Effettivamente poi sono sempre di più gli ambiti che ne fanno parte (medicina narrativa, psicologia ecc.): diventa una vera e propria forma di couching.
Chi può gestire al meglio questo tipo di cose? Persone che si sono sempre occupate della narrazione. Storicamente parlando le arti liberali, anche se divise in trivio e quadrivio, riconoscevano un’unione delle varie culture, un superamento dell’idea di scissione: penso ci sia un ritorno a questo modo di vedere la conoscenza e la comunicazione.
Raccontare: questione di cuore o di testa? Quanto incide la cosiddetta “ispirazione” quando la narrazione viene richiesta con uno scopo, con dei tempi regolari, per un obiettivo aziendale preciso? Quanto influisce sull’ispirazione l’analisi dei competitors?
Io credo che la scrittura, come qualunque tipo di narrazione, sia un incontro tra ispirazione e vari tipi di esigenze. Un esempio? La letteratura francese dell’800, coi feuilleton: se gli autori non terminavano il pezzo, non avevano di che vivere. Il cinema è uno dei migliori esempi, essendo collegato a tanti fattori economici. All’interno dei vincoli, è necessario essere creativi. Se si parla di narrazione, anche al di fuori del campo letterario, bisogna rapportarsi ai vincoli, una serie di paletti entro cui deve rientrare la creatività. Le aziende che riescono meglio sono quelle che interpretano la propria identità, in modo creativo e dentro certe regole. La narrazione spesso è slegata da una rete di contenimento, che c’è invece nell’impresa. Non esiste una formula precisa, esistono però aree e probabilità entro cui è necessario collocarsi. Con delle doti e delle capacità personali è statisticamente più semplice emergere. Ma il talento o l’ispirazione a volte si palesano come one-shot, dunque non proprio adatti alla narrazione per l’impresa. Ecco perché è importante studiare e smettere di credere che tutto sia dovuto a doti innate: una buona riflessione su queste argomenti aumenta le possibilità di una buona riuscita.
Lo studio delle altre aziende, dei competitors, influisce certamente sulla qualità della narrazione: c’è un bersaglio da seguire e questo obiettivo è sempre mobile. La riflessione sul lavoro degli altri è fondamentale: la propria identità spesso si definisce per differenziazione. La prima caratteristica, la più importante di una narrazione, è quella della credibilità, ma anche avere una solida identità.
In una narrazione d’impresa così concepita tutti sono co-narratori.
Una storia è un contenuto, e al giorno d’oggi abbiamo una grande varietà di mezzi disponibili per diffonderlo. Quanto è importante la multimedialità nello storytelling? Come e quanto cambia una narrazione a seconda della piattaforma in cui deve agire?
Le narrazioni non si possono confinare su un preciso supporto, perché anche se preparata per un supporto definito e dentro certi confini, evade: dodici ore dopo potrebbe essere ovunque.
Il narratario si evolve con il narratore. Non c’è niente di più “patetico” di chi vende una vecchia storia a un narratario nuovo. Deve esserci sempre alla base una capacità di cambiare, di adattarsi. Chi fonda la propria narrazione sulla truffa, prima o poi farà cadere la fiducia del narratore. Il narratario è in continuo cambiamento, e proprio per questo bisogna offrire una narrazione onesta, legittima e in continuo cambiamento.
Come si impara a raccontare, a dare una forma convincente alla propria storia?
Bisogna far diventare sé stessi storia, mettendosi in gioco. Costruire la propria storia e comunicare in modo forte la propria identità sono le prime forme di narrazione. Un’azienda non deve iniziare dal racconto del prodotto, ma del brand, della propria storia (e con storia non s’intende un racconto semi-biografico dell’azienda, del tutto personale). Deve in qualche modo riguardare il narratario, inglobandolo all’interno di essa. Il rischio è però quello di scadere nella retorica, nella presunzione e, soprattutto, nell’inattuale.
Si dice che oggi ci siano “più scrittori che lettori”. Come si può tracciare il confine tra scrivente e scrittore, tra narratore quotidiano e narratore di professione? Tutti, idealmente, possono occuparsi di storytelling, o è necessaria una certa capacità autoriale?
Tutti nasciamo narratori nel quotidiano e lo diventiamo attraverso competenze personali. Si è immersi nelle narrazioni altrui, e non tutti le produciamo. Non è detto che sappiamo costruire o controllare le nostre narrazioni, ma lo facciamo istintivamente. E soprattutto capiamo, in modo quasi istintivo, che la lealtà è necessaria. Un bambino che dice una bugia, quando viene scoperto, ha due scelte di evoluzione: smettere di mentire o cominciare a mentire meglio ma con risultati più disastrosi, alla fine dei fatti.
Il giusto ambiente, con i giusti stimoli, può creare narratori migliori. Il confronto con le narrazioni altrui e un ambiente di scambio, che ti permette di verificare la tua comunicazione, sono fondamentali. In ambito letterario, certo, i tempi sono più lunghi e dominati da logiche diverse. Ma la dinamica del contatto, del confronto e dello scambio è sempre positiva. Ambientarsi nel contesto del proprio lavoro è fondamentale: se voglio fare narrativa d’impresa, devo impegnare del tempo a capire cosa e in che modo stanno narrando le altre imprese.
La dinamica del confronto porta positivamente a copiare gli altri, senza farsi scoprire. Non significa plagiare, si intende una reinterpretazione di qualcosa che si ammira attraverso il proprio punto di vista, i propri mezzi autentici e la propria narrazione. Basandosi su un contesto comune si può adattare e fare proprio uno stimolo interessante.
Può raccontarci un perfetto esempio di storytelling d’azienda?
Ci sono due esempi chiari e molto interessanti, uno sul narrarsi e uno sul non narrare.
1) Classe A Mercedes. Macchina nuovissima, attesissima dai clienti, dopo una prova di guida si ribalta. Disastro di marketing totale. La Mercedes agisce in maniera forte e comunicativa: dopo aver riparato il modello, crea una serie di pubblicità che giocano sull’errore: nel nuovo spot, la stessa macchina viene sollevata da una gru, ed è così solida che stacca anche la strada.
2) Volkswagen, invece, dopo lo scandalo sulle emissioni, sceglie di non parlare. Il non narrare è una scelta. La narrazione è la dichiarazione di uno stato di divergenza, di eccezione, è l’esaltare un particolare. In questo caso, la narrazione non si sarebbe differenziata in senso positivo, poiché non era sul proprio terreno. Non parlare è il rifiuto di un terreno di comunicazione imposto dall’esterno. Un periodo di silenzio è necessario a riqualificare il modo di raccontarsi.
Parentesi social: come si sviluppa lo storytelling aziendale in questo caso? Storytelling è solo narrazione o anche ricerca di un’idea, di un mondo, di un concept per poter trasmettere la mission aziendale?
Non bisogna puntare all’esaustività, né occludere tutti i canali. Io narratore scelgo dove raccontarmi, ponendo sempre prima un grande rispetto del narratario. Identificare il pubblico di riferimento e la fascia d’età è il primo passo. È inutile impegnarsi su un sito troppo tecnico per pubblicizzare un prodotto interessato a sessantenni. Il secondo punto fermo è differenziare la narrazione a seconda del supporto che deve essere coerente all’ambiente: è totalmente inutile costruire un depliant in modo identico a un sito. L’utilità della narrazione, qualunque essa sia, deve essere pratica e applicarsi a un contesto d’uso. Anche la favola più semplice ha un’utilità: il bambino vuole ascoltare Cappuccetto Rosso per spaventarsi e arrivare alla soluzione di una tensione. La risoluzione di una tensione è l’utilità della narrazione, e la tensione è quindi fondamentale, come lo è la lealtà: se l’utile non è leale prima o poi cade, e perde per sempre la fiducia del narratario. Le narrazioni condotte in modo sleale, sia quelle piccole d’impresa che quelle grandi della politica, portano a un progressivo disamore, perché diventano inutili, scoordinate e inadatte alla richiesta del narratario.
La logica del servizio è una delle basi della narrazione d’impresa. Bisogna comunicare chiaramente il messaggio “io sono dalla tua parte”, “puoi avere fiducia in me”, “otterrai qualcosa di buono da questo accordo”. Il patto fiduciario che si installa è sacro, ed è ciò su cui si basa il successo della narrazione.
Cosa consiglierebbe a un giovane narratore? Come trasformare la voglia o il talento nel raccontare in una competenza valida per il mondo del lavoro, soprattutto per quello delle aziende?
Non ci vuole nessuna competenza specifica per narrare. Ci vogliono competenze disciplinari per settore, che vanno costruite osservando e provando, con grande flessibilità e modestia, mai con presunzione.
Il miglior scrittore può scrivere un comunicato in modo penoso, ma può diventare molto bravo se ne scrive tanti, se si esercita, se si confronta con il problema. È importante, soprattutto adesso, non imporsi vincoli troppo stretti. L’importante è saper costruire l’immagine che si comunica di sé stessi. Non esiste niente di rigido o schematico: si può sempre aggirare e rovesciare un problema, ma con l’uso cosciente di competenze e non con l’improvvisazione.
Di nuovo, è un’idea interessante copiare senza farsi scoprire, senza ammetterlo mai. L’osservazione del lavoro altrui è fondamentale per far partire e migliorare il proprio, emulare qualcosa che già esiste ed è efficace. Analizzare punti di forza e debolezza per poter trarre il meglio e declinarlo nel proprio campo, ambito, settore di posizionamento aziendale. Copiando qualcosa, in realtà, si fa una dichiarazione di ammirazione: si cerca di replicare le strutture, e al contempo bisogna riuscire a integrare altro, ad apportare energie diverse. L’inserimento di modifiche, particolarità tecniche, ottimizzazioni, fa sì che alla fine venga creato qualcosa di diverso. Piccole differenze individuali nella replica di strutture precedenti sono state in grado di creare grandi opere e grandi narrazioni.
Secondo Narrazione d’impresa, pubblicato da Franco Angeli Edizioni nel 2013, il primo passo per poter parlare di qualcosa è saper parlare di sé stessi. Meglio il vecchio, classico curriculum, o un portfolio pieno di obiettivi, e delle storie che li riguardano? Come integrare il vecchio metodo con il nuovo, in modo che risulti allo stesso tempo credibile e originale?
Il tuo racconto ha come scopo il rapporto con qualcuno, e questo rapporto è fondamentalmente un patto fiduciario. Bisogna trasmettere una struttura di senso con onestà: è inutile tentare di vendere qualcosa che non ha alle spalle il vero oggetto di cui si sta comunicando il senso. La persona non trova nulla di utile dietro la comunicazione, ma soprattutto non esiste il narratario standard universale: si va sempre a narrare per un certo target e una certa fascia, da individuare con sicurezza. Il narratario poi è interessato non tanto alla storia, quanto al conflitto che comunica, e alla sua possibile soluzione: ascoltare una narrazione è anche un modo per vedere il problema in modo trasversale.
Troppe storie raccontate da troppi narratori non diminuiscono drasticamente il numero dei lettori e degli ascoltatori? Se tutti possiamo raccontare, e tutti ci mettiamo a raccontare, chi ascolterà le storie che verranno prodotte? Si rischia di provocare una sovrabbondanza, e un parallelo calo della qualità delle storie?
Le tante narrazioni che ci sono non creano una mancanza di narratari. Ognuno di noi può essere sia l’uno che l’altro contemporaneamente, in modo alternato. Nell’universalità delle narrazioni, ognuno di noi ha sempre bisogno di ascoltare qualcosa, di essere il ricevente di una comunicazione. Se una narrazione non attira narratari, evidentemente è il messaggio a essere sbagliato, probabilmente per l’inattualità della sua struttura.
Cosa ne pensa delle “grandi narrazioni sociali”? Come si sviluppa lo storytelling di un grande progetto politico, ad esempio, rispetto ai mezzi che raccontano il marchio o il prodotto di un’azienda? Quanto è pericoloso in questo senso lo storytelling quando si fa portavoce di un’ideologia?
C’è una sorta di sindrome del silenzio nelle grandi narrazioni istituzionali, che sono sempre più lontane dal quotidiano e dalla realtà delle persone, che ormai avvertono la propria presenza come inutile al fine della narrazione collettiva. C’è un progressivo sfaldamento delle grandi narrazioni sociali, che non attirano più la fiducia e non vengono più percepite come personali. A un certo punto si arriva a un crollo, e a uno spaccamento drastico, a un cambio enorme nella soluzione di continuità nelle situazioni geopolitiche, che corrispondono ai grandi cambiamenti storici. Il problema delle grandi narrazioni sociali, come per le narrazioni minori, è che una volta lanciate non possono essere controllate. E contrapporre una narrazione con messaggi negativi a una narrazione contraria non sempre è un metodo efficace. Tutto dipende dalla fiducia che queste narrazioni riescono a creare nel pubblico, i modi che hanno per superare i sistemi di verifica della loro attenzione. A un certo punto c’è sempre una severazione delle narrazioni fatte, i nodi vengono al pettine anche dopo anni, e una narrazione che è stata efficace per tanto tempo crolla, perché non risponde più all’utile promesso. Dunque, in breve, una narrazione onesta ripaga sempre.
Qui la recensione a Narrativa d’impresa, di Davide Pinardi e Maurizio Matrone, FrancoAngeli 2013.