Un progetto a cura degli allievi dei master in editoria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

“Esistono narrazioni che sono come acqua da bere”: intervista a Serena Daniele

Claudia Musso

Professione Editoria

Onestà, dedizione e un occhio sempre innamorato della scrittura. Ecco gli ingredienti dell’editor perfetto secondo Serena Daniele, editor di narrativa in NN editore. Dopo quasi trent’anni nella grande editoria – Feltrinelli, Rizzoli, Salani – racconta il suo mestiere, il rapporto con gli autori e la scelta di passare a una dimensione più ristretta. Oltre al ritrovato piacere di dare importanza a ogni singola copia venduta.

Entriamo nel merito del lavoro dell’editor. Il rapporto con gli autori è la parte più importante: come si svolge? Si riescono a fare compromessi?
Prima di tutto, l’editor deve amare il libro di cui si occupa. Il rapporto con l’autore si basa su questo principio: il suo libro è importante e verrà trattato con lucidità, chiarezza e passione. Dalla prima lettura scaturiscono le osservazioni volte a migliorare il testo e che l’autore può accogliere oppure no. Talvolta il confronto è lungo e complesso, perché ci sono autori più “facili” e disposti a mettere in discussione le proprie scelte e autori più difficili, più legati all’esperienza della propria scrittura e meno disposti ad accettare delle modifiche. Ma bisogna essere chiari sin dall’inizio: se l’autore premette che vuole controllare ogni singola virgola, l’editor sa che tutte le virgole saranno discusse. E alla fine è l’autore ad avere l’ultima parola, purché sia mantenuta la qualità e la coerenza di quell’opera nel catalogo della casa editrice. Personalmente, per fortuna, ho amato quasi tutti i testi su cui ho lavorato, soprattutto quelli italiani.

Quindi i compromessi vanno più spesso a favore dell’autore che dell’editor?
Devono andare in quella direzione, soprattutto quando si tratta di libri letterari. Ci sono autori che scrivono magnificamente, ma che hanno bisogno di consigli su trama o struttura; questi autori hanno come obiettivo il massimo della leggibilità e vogliono diffondere il loro lavoro, quindi accettano modifiche importanti: a volte riconoscono di essere partiti da un’idea parzialmente riuscita e in questi casi il lavoro tra autore e editor passa attraverso una revisione del testo anche molto profonda.

Si può “spegnere” lo sguardo dell’editor? Tu riesci, quando leggi per piacere, a fare uno switch dall’editor alla lettrice?
Devo ammettere che negli anni questo switch mi riesce più difficile. A me piacciono i libri complessi, non lineari, che usano l’ironia e il grottesco come specchio per osservare la realtà: a quei libri mi abbandono volentieri, e “spengo” lo sguardo dell’editor. Ma amo anche libri più semplici dove la profondità dei temi si unisce a una leggibilità assoluta: queste narrazioni sono come acqua da bere, necessarie per mantenere alta l’attenzione, la curiosità, per fare meglio il proprio lavoro. Molta narrativa americana mi fa questo effetto. Infine ci sono i libri che mi ispirano subito delle osservazioni, e i punti che da editor avrei modificato mi saltano all’occhio: ma non è detto che non mi piacciano, solo li avrei trattati in un altro modo. In questi casi forse il mestiere rovina un po’ la lettura. Per evitarlo, cerco di leggere quello che mi piace di più.

Oltre a essere editor tu sei anche traduttrice – è appena uscito Il talento di Paul Nash di Tom Drury con la tua traduzione. Come si conciliano questi due ruoli?
Nel mio caso sono due ruoli che non possono comunicare l’uno con l’altro. Il testo che traduco mi sembra indomabile, si sviluppa in mille modi che fioriscono nella mia mente, e le scelte linguistiche da operare (che devono essere armoniose, e rispettose dell’originale) non sono passaggi automatici. Questa traduzione è stata molto impegnativa e poiché non sono una traduttrice di mestiere, mi sono assicurata di sottoporre ogni passaggio del testo a un double check, da parte di altri editor. Nella rilettura finale ho cercato di mantenere l’equilibrio tra il mio orecchio e quello di chi ha riletto la mia traduzione.

Hai lavorato tanti anni in Salani in un momento di grande fermento, con la prima edizione italiana di Harry Potter, e da quando sei passata a NN editore sono uscite nuove edizioni e nuovi libri collegati a quel mondo. Come è stato passare il testimone di un progetto così coinvolgente e come si affronta, in generale, lavorando in casa editrice, l’attaccamento ai progetti?
L’attaccamento non finisce mai del tutto, ma Harry Potter è talmente più grande di chi lo cura che lo si lascia andare a cuor leggero. In un primo momento, ero rimasta turbata all’idea che la prima edizione italiana, quella a cui avevo dedicato così tanto, fosse diventata obsoleta: ma in realtà, non è stato esattamente così. L’enormità del successo, dell’influenza su generazioni di lettori, sull’immaginario comune, ha trasformato l’esperienza di lettura di Harry Potter al punto da renderlo in un classico. Come tale, era necessario un passaggio di curatela, che è avvenuto grazie a Stefano Bartezzaghi, che ha preso in esame ogni aspetto del mondo magico potteriano privilegiando altri criteri. Nel gruppo che ha lavorato alla nuova edizione, per esempio, c’è stato un dibattito molto vivace sulla traduzione dei nomi dei personaggi, nell’ottica di andare incontro alle esigenze di un pubblico diverso.

In che senso?
Quando Harry Potter è uscito nel 1998, c’era una minore dimestichezza con l’inglese, e la letteratura per ragazzi veniva tradotta e curata per accompagnare lettori e lettrici alla comprensione di ogni aspetto linguistico: era una prassi certamente molto creativa, che cercava una resa italiana per ogni nome “parlante”, che rendeva familiare ogni contesto. I nuovi lettori sono oggi molto più a loro agio con l’immaginario anglosassone e hanno molti più riferimenti, letterari, televisivi e cinematografici. In poche parole, capiscono tutto senza bisogno di “traghettare” il senso da un ambito linguistico a un altro. È un’esperienza culturale diversa. Personalmente, posso fare fatica ad accettare la nuova traduzione del Signore degli Anelli – l’ho letto che avevo 16 anni! – ma accetto senza ombra di dubbio il diritto dei nuovi lettori di fare un’esperienza culturale specifica e appropriata al loro tempo.

E come è stato il passaggio da Salani a NN?
È stato lungo e non privo di incertezze. A Salani devo tantissimo, in termini professionali: ho imparato a lavorare in una squadra molto brillante e affiatata, molto esigente e in costante cambiamento. Ma a un certo punto ho sentito di dover decidere se continuare a lavorare per un grande editore o restringere il campo ed entrare in una dimensione molto più piccola in cui si deve vendere ogni singola copia quasi porta a porta. E ho pensato che fosse un’occasione irrinunciabile: volevo provare la sensazione di essere di nuovo un po’ scout, di leggere libri senza dover pensare troppo a come collocarli in un catalogo ampio come quello di Salani, e magari dedicarmi un po’ di meno alla parte produttiva e un po’ di più alla selezione.

E l’organizzazione e la filosofia interne a NN?
Eugenia Dubini è l’editrice e l’anima di NN, dà la direzione al catalogo e compra i titoli. Sono molto orgogliosa di essere sua socia in questa impresa. L’idea è quella di un catalogo costruito in maniera collettiva. Di base c’è un’identità forte creata da Eugenia, da Alberto Ibba, da Edoardo Caizzi, da Gaia Mazzolini, un’identità che in redazione io e le fantastiche Marianna Gennari e Serena Cabibbo coltiviamo e valorizziamo in ogni aspetto: leggiamo tutto quello che ci arriva dai cataloghi degli editori e degli agenti e curiamo ogni testo in maniera particolare, a più mani, perché arrivi al lettore come un insieme di gusti personali che si fondono in una cosa sola: il libro con quella copertina lì, con la N fatta in quel modo, con le bandelle, con “Questo libro è per chi…”. L’obiettivo è quello di mettere tutti i lettori nelle condizioni di poter prendere uno dei nostri libri e condividerlo, parlarne con gli altri. Il libro ha una grandissima capacità di aggregare o disaggregare senza essere necessariamente tutte le volte un fenomeno editoriale.

Cosa consigli a chi vuole entrare in casa editrice?
Amare i libri incondizionatamente. Amare le storie ed entrarvi in sintonia. Coltivare un proprio gusto e imparare a rinunciarvi davanti a un libro, o un autore, che riesce a superare il gusto comune. Ascoltare l’istinto quando suggerisce non “questo libro mi piace” ma “dentro questo libro c’è qualcosa che mi risuona”. Intercettare questo qualcosa, farlo crescere, renderlo bellissimo e ritrovarlo anche in altri libri. Mai spaventarsi, neanche davanti ai libri più strani e difficili e lontani da noi, perché tutti avranno quel “qualcosa” che ogni volta fa innamorare.

Un esempio?
Al liceo mi capitò di leggere il Dottor Faustus di Thomas Mann. Libro lungo e complesso, nelle cui pagine navigavo come in trance, ma di cui mi colpì una scena meravigliosa: l’invettiva del protagonista, il compositore Adrian Leverkühn, contro il diavolo con cui aveva stretto un patto che condannava a una morte dolorosa chiunque lui amasse. Non l’ho mai dimenticata e ancora adesso vado a cercare quella potenza emotiva in tutto quello che leggo, perché laddove c’è anche una piccola parte di quell’impatto io so che c’è un buon libro. Solo leggendo molto si impara a valutare, e per lavorare sul testo ci vuole un occhio innamorato della scrittura.

 

Questa intervista è stata realizzata nell’ambito del corso di Testi e video per l’informazione giornalistica di Carlo Fumagalli. Vedi l’elenco completo degli insegnamenti del Master Professione Editoria.

Serena Daniele è docente del Master Professione Editoria. Vedi l’elenco completo dei docenti del Master BookTelling Comunicare e vendere contenuti editoriali e del Master Professione Editoria.

 

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