“Non vorrei però che ci prendeste per un branco di psicopatici. Siamo gente normale: alcuni buoni, altri cattivi, altri soltanto sfortunati.
E io, a quale categoria appartengo? Non l’ho ancora capito.”
Ernest Cunningham. Protagonista, voce narrante, scrittore di manuali di gialli, detective nel tempo libero, avvocato ad honorem, nuotatore olimpionico nei laghi ghiacciati. Nel prologo promette di essere sincero – omettere qualcosa non è mentire, perciò non conta –, di raccontare la verità per come la conosce lui mentre la vive, e come prova della sua buona fede elenca il numero delle pagine in cui ha luogo o viene rivelata una morte, anticipa che non ci saranno scene erotiche e che nella storia è presente un buco di trama. Durante tutta la narrazione non perde occasione per fare spoiler o per rimarcare le dieci regole di Ronald Knox per il giallo perfetto – il fatto che proprio rispettandole in realtà le raggiri è un’altra storia.
D’altronde, non potevamo aspettarci niente di diverso da uno che si chiama Ernest.
Eppure, non fa altro che mentire. Non al lettore, mai al lettore. A sé stesso.
Andiamo per ordine.
La storia.
Un giallo raccontato da uno che scrive di gialli, perciò chi meglio di lui per risolvere il caso di uno sconosciuto morto in modo sospetto proprio durante la rimpatriata della sua famiglia piena di segreti? Mettiamoci anche un rifugio in montagna, una tempesta di neve, una lente d’ingrandimento, un incendio, un serial killer, e il gioco è fatto. Questi cliché però non danno fastidio, perché sono giustificati dal semplice motivo che la vita ne è piena. E poi lo stile di Stevenson è da fuoriclasse, si accetta tutto ciò che scrive senza fare domande.
I personaggi.
Sono sempre pronti a mostrare una nuova sfumatura di sé, del loro passato; con alcuni si empatizza più che con altri, ma ognuno di loro è importante, i nomi delle sezioni in cui è diviso il libro ne è la prova. Si arriva a dubitare di tutti – tranne di Ernest – e di tutto, anche delle proprie capacità deduttive, dal momento che ogni informazione viene sbandierata senza remore perché tanto da sola è inutile: è l’insieme che crea il puzzle, e al puzzle ci si arriva solo quando decide Ernest, non una riga prima. Tutto ciò potrebbe risultare irritante, ma quel prurito alle mani che si avverte durante la lettura altro non è che la voglia di voltare un’altra pagina, di arrivare alla fine per svelare il mistero.
Provare per credere.
Una volta terminato il libro ci si rende conto di ritrovarsi letteralmente di nuovo al principio – il cerchio ora è chiuso – e che Ernest mente a sé stesso perché lui non ha paura di essere un vero Cunningham, lui ha paura di non esserlo abbastanza.