
“La scrittura spacca la schiena […] È come sparare alla luna senza nemmeno poter applicare le leggi della fisica. Il colpo si perde nella vastità del cosmo. A volte non si vede abbastanza per sapere se si è fatto centro. Vale la pena sacrificare una bella fetta della propria vita per questo?”
Ogni giorno un esercito di aspiranti novellieri si reca al fronte della pubblicazione. Inizia così l’intricato processo della macchina editoriale che si rivela, spesso e con pochi effetti sorpresa, un’odissea apocalittica senza gloria, se non quella, citando Giulio Ferroni, di un’esasperante “costipazione”. A denunciare il fenomeno è il giornalista e scrittore Paolo Bianchi, nel nuovo volume Dell’inutilità della scrittura. Inchiesta sull’editoria italiana edito nella collana I saggi di Editrice Bibliografica. Con toni sarcastici e dissacratori, l’autore seziona e passa in rassegna gli intrecci che si nascondono nell’agognata speranza di scalare l’Olimpo della letteratura.
Le premesse sono aleatorie quanto paradossali: tutti scrivono, alcuni pubblicano, pochissimi leggono. In Italia, infatti, vengono stampati 200 milioni di libri ogni anno. I lettori forti, però, sono solo il 15%. Della restante parte, meno della metà non ne legge nemmeno uno. La sorte dell’eroe-scrittore, dunque, sembra segnata: finire nella triste morsa del macero. Perché, allora, ostinarsi a scrivere? A cosa serve la scrittura? Più che rispondere a questo interrogativo, Paolo Bianchi ne rovescia la prospettiva e lo ripropone sotto un’altra veste: ha davvero senso pubblicare?
Oltre a costruire con ironia pungente diversi “identikit” di candidati romanzieri che ostruiscono le mail di agenti letterari ed editori – allegando una lista delle “quindici cose da non fare” per evitare di essere cestinati prima ancora di essere letti – l’autore affonda una sferzante critica sul sistema di “editoria a tassametro”. Nell’affollato villaggio del mercato sono numerosi, infatti, gli “editori in cerca di autore” che, promettendo pubblicazione e promozione dietro compenso, si rivelano lo specchietto delle allodole per quella legione di scrittori affamati, disposti a tutto pur di raggiungere una posizione nell’El Dorado letteraria. Ma carmina non dant panem, ribadisce Bianchi. Non sempre, ma quasi sempre. Così come il sorridente luccichio della valanga di premi letterari o della miriade di scuole di scrittura creativa con la pretesa di insegnare a scrivere.
La scrittura, invece, è un lavoro che richiede metodo e disciplina, di certo non un passatempo. Non a caso, García Marquez scriveva che “la letteratura non è altro che falegnameria”. Un lavoro che però, avverte l’autore, non garantisce un privilegio ma che, anzi, condanna. La domanda iniziale, infatti, sull’utilità reale della scrittura non trova una risposta esplicita e mirata. Paolo Bianchi, con sopraffino esercizio di stile, preferisce sviare o concludere con un’antologia di 25 citazioni – da Hemingway a Carver, da Miller a Buzzati – affidando a chi ce l’ha fatta il compito di rispondere al lettore o, per manifesta volontà, all’aspirante romanziere: “in fin dei conti…sono solo dei libri.”
Questa recensione è stata realizzata nell’ambito del corso di Web, e-commerce e metadati per l’editoria di Paola Di Giampaolo. Vedi l’elenco completo degli insegnamenti del Master Professione Editoria.
Paolo Bianchi – Dell’inutilità della scrittura. Inchiesta sull’editoria italiana
192 pp., 22 euro – Editrice Bibliografica, 2021 (I saggi)
ISBN 9788893573245