“La comunicazione contemporanea – di cui i social sono a un tempo detrito, testimonianza, incubatore, acceleratore, droga, veleno, antidoto – pare vocata a esiti paradossali. L’assurdità, l’antinomia logica, la contraddizione conflittuale non solo tra gli enunciati e non solo fra gli enunciatori, ma anche all’interno di singoli enunciati (e di enunciatori individuali) sembra essere il suo destino”
Dopo La ludoteca di Babele e Parole in gioco lo scrittore principe dei giocatori di parole sceglie di affrontare la questione del rapporto fra semiotica, retorica e le nuove forme della comunicazione 3.0.
Quale campo di osservazione (e di rilettura) migliore dei social media per analizzare la fenomenologia della dicotomia banalità/distinzione? Si chiede Bartezzaghi: “Come si può conciliare desiderio di originalità e immersione nello stereotipo?”. Muovendo da quattro ipotesi vengono così individuate, nel suo studio, alcune attitudini dei social: verso l’originalità, verso un’apparente (e illusoria) caduta delle gerarchie fra gli utenti, verso la diffusione degli stereotipi. Impossibile non fare i conti poi con quella che l’autore indica come una vocazione spiccatamente metalinguistica e autoriflessiva dei social media. Sono queste le tendenze che contribuiscono, tutte insieme, a plasmare le caratteristiche enunciative, i presupposti argomentativi e le modalità discorsive della comunicazione social.
A dispetto di quanto enunciato dal titolo, credo infatti che il cuore pulsante – o la preoccupazione più urgente – dello studio di Bartezzaghi non sia costituito dalla riflessione sul concetto di “banalità”. Il tòpos dell’opposizione banalità/distinzione sembra dunque essere usato dall’autore come prospettiva, come porta di accesso (meglio, come presupposto) alle questioni – due a mio parere – centrali del libro: forme e caratteristiche enunciative del “discorso social” e destini dell’atto interpretativo nell’era dei social media. Le questioni introdotte da Bartezzaghi nel suo studio sono molteplici. Vengono infatti recuperati, arricchiti e reinterpretati i concetti di fama, reputazione, confusione dei piani di realtà, uso degli stereotipi, del Kitsch come tentativo di evasione dalla banalità, di costruzione populista del buon senso, di rapporto possibile fra luoghi comuni e logica. Tutte trovano un senso e un punto di convergenza nella domanda: che ne è dell’interpretazione nell’era dei social? È evidente che per rispondere a questo interrogativo si rende fondamentale, per Bartezzaghi, la definizione delle peculiari caratteristiche enunciative del “discorso social”.
Pur non nascondendo le sue preoccupazioni per il destino (se non già per il presente) del discorso comunicativo tipico della contemporaneità, da buon allievo di Eco, Bartezzaghi non cede alla “banale” tentazione di collocarsi nella schiera degli apocalittici o nella fazione degli integrati. Aderendo a una proposta del suo maestro, l’autore di Banalità indica anzi una possibile via d’uscita: contro l’abito spesso fieramente esibito dell’irragionevolezza e dell’idiozia, virus della società (e della comunicazione) contemporanea, di cui le diffusissime pratiche di interpretazione e di ricodifica “aberranti”, così ben attestate nel “discorso social”, rappresentano le manifestazioni talmente mostruose da apparire quasi paradossali, forse solo una nuova, rinvigorita fiducia nella cooperazione fra logica e corretta azione argomentativa può qualcosa.
L’autore di Dando buca a Godot e di Come dire divaga, frammenta (una frammentazione, seppur programmaticamente dichiarata, forse a volte eccessiva), reitera e predispone per il suo lettore uno stimolante percorso di variazioni sul tema, divertendosi a disseminare indizi e stimolando quello che presuppone essere un “lector in fabula” dotato di un necessario ma non arbitrario margine di libertà nel compito di costruire il senso e il messaggio della sua argomentazione.
Stefani Bartezzaghi – Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network
272 pagg., 17,00 euro – Bompiani 2019 (Campo aperto)
ISBN 978-88-452-9963-6